Tribunale, Lucera, sentenza 21/07/2009
La Relazione di accompagnamento al decreto legislativo 231/2001 (d’ora in poi, anche il Decreto) evidenzia in maniera inequivoca che, ai fini della esclusione della responsabilità, all’ente viene richiesta l’adozione di Modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio reato, e cioè volti ad impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati elencati nel medesimo decreto.
Requisito indispensabile perché dalla adozione del Modello derivi l’esenzione di responsabilità dell’ente è che esso venga anche effettivamente ed efficacemente attuato. L’effettività della applicazione del Modello rappresenta, dunque, un punto qualificante ed irrinunciabile del Modello stesso, ma si pone come un posterius rispetto al preventivo requisito della idoneità del Modello consistente nella individuazione di modelli comportamentali specificamente calibrati sulla possibilità del verificarsi del rischio reato.
La sentenza del Tribunale di Lucera, emanata in data 9 luglio 2009 all’esito di un’approfondita istruttoria dibattimentale, sollecita a nostro avviso interessanti spunti di riflessione generata dalla meticolosa descrizione della condotta criminosa addebitata all’autore del reato presupposto rappresentato, nello specifico, dal reato previsto e punito dall’art. 640 bis del codice penale, e che ha condotto alla declaratoria di responsabilità – ai sensi del decreto 231/2001 – anche dell’ente nel cui interesse (ed a vantaggio del quale) il reato presupposto era stato consumato, non essendo stata ritenuta applicabile l’esimente di cui all’art. 6 del Decreto.
L’antefatto storico
In particolare, la vicenda oggetto del processo si è verificata nell’ambito di una procedura tesa all’ottenimento di contributi pubblici, ai sensi della legge 488/1992.
La società “(1)”, costituita il 2.3.2001 tra (2), (3) e (4), e il cui amministratore era stato nominato nella persona di (2), aveva infatti richiesto l’ammissione al ricevimento dei contributi, con domanda del 28.2.2002, per un programma di investimenti finalizzati all’ammodernamento della propria unità produttiva ubicata in Rodi Garganico.
All’esito della istruttoria svolta, il Ministero delle Attività Produttive aveva emesso il D.M. nr. 116993 del 19.7.2002, con il quale ammetteva la società ai benefici, rilevandone il collocamento nella posizione nr. 40 della graduatoria regionale ordinaria.
L’art. 3, lett. C, del richiamato decreto, prevedeva che la società beneficiaria operasse nel pieno rispetto delle vigenti norme edilizie, urbanistiche e di salvaguardia ambientale, mentre la successiva lettera E prevedeva che la società dimostrasse -alla data di disponibilità dell’ultima quota del contributo- di aver sostenuto spese in misura pari almeno a quella necessaria per richiedere la prima quota del contributo (a pena di revoca dei contributi stessi: art. 3, comma 2 del D.M.).
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, del medesimo D.M., l’erogazione delle agevolazioni era subordinata alla presentazione della documentazione idonea a comprovare l’apporto di capitale proprio fino al raggiungimento di 1.900.000,00 euro, e che per le erogazioni successive alla prima doveva anche essere comprovato l’avvenuto versamento e/o accantonamento di almeno la metà del capitale proprio, previsto complessivamente in 1.900.000,00 euro.
I capi di imputazione
A fronte di quanto premesso, secondo la tesi di accusa, sarebbe accaduto che la società contabilizzasse due fatture per operazioni inesistenti (contestate rispettivamente ai capi F e B), i cui costi erano poi stati comunicati alla banca concessionaria al fine di conseguire le somme accordatele; effettuasse un aumento fittizio del capitale sociale, con versamenti di somme da parte del socio (3), al quale la società le aveva però interamente restituite; presentasse alla banca concessionaria una falsa perizia giurata (contestata al capo C), che attestava che le opere eseguite presso la struttura non necessitavano di concessione o autorizzazione edilizia, ma di semplice comunicazione, che nella specie era stata inviata, laddove invece per alcune delle opere sarebbe stato necessario il permesso di costruire e l’autorizzazione derivante dal vincolo paesaggistico nonché quella connessa al fatto che le opere erano eseguite nell’ambito del Parco Nazionale del Gargano.
Il complesso di tali attività, secondo la tesi d’accusa, avrebbe integrato la commissione di artifici e raggiri, grazie ai quali la società (1) avrebbe illecitamente conseguito l’ingiusto profitto consistente nel ricevimento di una prima quota di contributo, e nell’acconto di una seconda quota del contributo (rispettivamente euro 203.142,00, accreditata il 3.1.2003, ed euro 162.513,60, accreditata il 6.12.2004), profitto ingiusto perché la corretta illustrazione dei dati non avrebbe consentito l’inserimento della società nella graduatoria ovvero non avrebbe consentito l’effettiva erogazione delle agevolazioni (capo D).
Nello stesso tempo, il P.M. ha contestato alla società la violazione dell’art. 24, comma 1, del D.Lgs. 231/2001, dipendente dal reato sub D, perché la condotta del legale rappresentante aveva consentito l’indebita acquisizione della somma di euro 365.655,60.
All’esito della istruttoria dibattimentale, alle cui conclusioni e considerazioni rinviamo con la lettura della sentenza in commento, il Tribunale è pervenuto alla affermazione della penale responsabilità dell’autore del reato ed alla condanna dell’ente nel cui interesse ed a cui vantaggio il reato era stato posto in essere, attesa l’assenza dei presupposti per l’applicazione della esimente di cui all’art. 6 del d.lgs. 231/2001.
La sentenza, appare molto interessante per la dovizia di particolari descrittivi della condotta criminosa, al punto da costituire, a nostro avviso, un interessante template di riferimento delle possibili modalità attuative del reato su cui i singoli enti, coinvolti da analoghi processi decisionali, possono calibrare i relativi protocolli di mitigazione del rischio di commissione del reato.
Il concetto di Idoneità e la Teoria del Rischio Accettabile
L’elemento di riflessione innescato dalla sentenza citata trova origine nella analisi delle disposizioni contenute nelle lettere a) e b) dell’art. 6, comma 2 del Decreto le quali, nel definire e descrivere le esigenze cui devono rispondere i Modelli aziendali di organizzazione e gestione idonei alla prevenzione dei reati elencati in decreto, coerentemente con le indicazioni contenute nella Relazione, richiedono che l’ente abbia a tal fine, e tra le altre cose, a) individuato le aree nel cui ambito possono essere commessi i reati e, per l’effetto, b) abbia previsto specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire.
Da subito in dottrina, nell’immediatezza della emanazione del decreto, si è discusso della reale portata e della effettiva estensione del concetto di idoneità, nonché degli effettivi limiti da attribuire a tale requisito, invocato in maniera inequivoca dalla norma.
Le perplessità erano legate alla scelta del legislatore di ricorrere al termine di idoneità, il cui utilizzo in ambito penalistico è intimamente collegato alla fattispecie del tentativo di cui all’art. 56 c.p., che per definizione è incompatibile con l’ipotesi di un delitto consumato.
Il percorso interpretativo più accreditato, su cui vi è stata diffusa convergenza tra gli interpreti, è offerto dal medesimo art. 6 del Decreto il quale, al comma 1 lettera c), subordina la possibilità di applicazione della esimente alla circostanza per cui il reato sia stato commesso “eludendo fraudolentemente” i Modelli di organizzazione e gestione, pur adottati ed efficacemente attuati dall’ente.
Con la specificazione di tale circostanza (l’elusione fraudolenta) il legislatore ha voluto precisare che, ai fini della applicabilità -da parte del magistrato- della esimente processuale, si richiede che il Modello di organizzazione e gestione sia stato progettato in maniera idonea, e quindi “capace di” raggiungere l’obiettivo di prevenire la commissione del fatto reato e che, solo l’elusione fraudolenta dei protocolli specifici richiesti dal comma 2 lettera b), posti a presidio del rischio reato, possa rappresentare un vulnus accettabile al requisito della idoneità (quindi della capacità di prevenire) richiesto ai fini dell’applicabilità della esimente, nel solco della cosiddetta teoria del rischio accettabile.
Sostanzialmente, secondo questa teoria -ispirata dai principi del risk management-, l’effettiva attuazione di un Modello che possa definirsi idoneo (ergo, capace di prevenire) impedirebbe ex se la possibilità che l’evento/reato si verifichi, atteso che il reato potrebbe verificarsi solo attraverso l’aggiramento ingannevole (leggasi fraudolenta elusione) del Modello da parte dell’autore della condotta criminosa.
Conseguentemente, secondo la teoria del rischio accettabile, l’ente avrebbe l’onere di predisporre ad attuare tutti i controlli possibili e necessari affinché l’evento reato non si verifichi se non attraverso una ingannevole elusione dei protocolli operativi posti a presidio del rischio.
Tale interpretazione è stata più volte criticata (e forse non a torto) dagli esperti di organizzazione aziendale- poiché ritenuta eccessivamente onerosa- nel momento in cui pretende che l’ente, al fine di giovarsi dell’esimente, debba individuare tutte le possibili modalità attuative delle (ormai numerose) fattispecie criminose previste dagli artt. 24 e 25 e ss. del Decreto ed i conseguenti protocolli di mitigazione del rischio di commissione dei medesimi reati, in misura tale che il Modello di prevenzione risulti esaustivo di tutte le possibili condotte, anche astrattamente ipotizzabili.
Ed effettivamente, così argomentando, deve convenirsi che, ove il Modello predisposto dall’ente non abbia previsto anche una delle possibili (poiché poi in concreto realizzatasi) modalità attuative di un’ipotesi di reato elencata in decreto, e questa –appunto- si sia effettivamente verificata, non è revocabile in dubbio che il Modello progettato da quell’ente non possa ritenersi esaustivo del requisito della idoneità nei termini voluti dall’art. 6 e dalla teoria del rischio accettabile, poiché, in tal caso, non si verterebbe in ipotesi di elusione fraudolenta dei protocolli di mitigazione.
Invero, in tal caso, la mancata previsione della condotta (in violazione del comma 2 lett. a) -poi effettivamente realizzata dall’autore del reato-, non ha innescato alcun protocollo finalizzato a mitigarne gli effetti (comma 2 lett.b).
Si verterebbe, dunque, in ipotesi di assoluta carenza di protocolli idonei alla mitigazione del rischio, e non già di elusione fraudolenta che, per definizione, presuppone l’esistenza di un protocollo da eludere.
Il tema, dunque, a nostro avviso, è quello antico ed efficacemente compendiato dal brocardo latino “ad impossibilia nemo tenetur”[1] che, verosimilmente, costituirà il terreno di battaglia giuridico su cui i difensori dell’ente da un lato, e magistrati dall’altro, fonderanno reciprocamente, senza possibilità di sintesi, le contrapposte teorie sulla sussistenza, o meno, della responsabilità dell’ente.
Tale prospettiva, oggi ci induce ad interrogarci, ricercare ed individuare -ove possibile-, quali siano le tecniche da utilizzare in concreto al fine di individuare ex ante, e con sufficiente certezza, le “possibili” modalità attuative delle condotte criminose (comma 2 lett. a) su cui progettare ed implementare all’interno dei processi aziendali le attività di linea e di controllo (comma 2 lett. b) in grado di contrastare quelle possibili modalità attuative del reato e non altre ulteriori, in maniera tale da limitare la valutazione ex post del magistrato alla efficacia ed effettività di quei protocolli, non essendo in discussione la corretta individuazione ex ante, da parte dell’ente, delle possibili modalità attuative del reato.
La Mappatura delle possibili modalità attuative del rischio reato
Prima di delineare qualunque Modello, l’ente deve necessariamente effettuare una mappatura ed una valutazione dei rischi che essa si trova, ordinariamente e straordinariamente, ad affrontare nello svolgimento del suo business.
Valutare un rischio vuol dire in primo luogo analizzare le probabilità che un fatto od un comportamento possano verificarsi all’interno della azienda, compromettendo la sua capacità competitiva, la sua redditività od addirittura la sua stessa esistenza.
Ogni organizzazione aziendale affronta uno specifico rischio reato in relazione al settore di attività che svolge, alla propria struttura organizzativa ed alla propria cultura aziendale.
Senza soffermarci, in questa sede, sulle specifiche tecniche di Risk assessment per l’individuazione del rischio, possiamo brevemente dire che il primo passo che l’incaricato dell’assessment (Risk manager) dovrà inevitabilmente porre in essere è rappresentato dall’esame approfondito della organizzazione aziendale, per individuarne le modalità operative di funzionamento ed i compiti attribuiti alle singole persone che lavorano nel suo ambito, nonché dall’esame di tutti quei documenti che riportano informazioni relative alla storia dell’impresa e, soprattutto, l’eventuale storico di precedenti giudiziari nell’ambito della stessa impresa e la casistica giudiziaria delle imprese svolgenti il medesimo business.
Orbene, proprio tale ultimo approfondimento (relativo alla casistica dei precedenti giudiziari) potrebbe costituire, a nostro modesto avviso, il limite del perimetro della diligenza richiesta all’ente nella individuazione delle possibili modalità attuative (comma 2 lettera a) di una fattispecie di reato.
Il paradigma, su cui si fonda l’assunto, è banalmente il seguente: Se l’ente ha individuato tutte le possibili modalità attuative di una singola fattispecie criminosa così come risultanti dalla casistica giurisprudenziale degli ultimi 15/20 anni, può ragionevolmente ritenersi che l’ente abbia diligentemente individuato ogni possibile/ probabile modalità attuativa di una fattispecie criminosa nel solco del principio dell’id quod plerumque accidit[2] e che ulteriori (e nuove) modalità di attuazione del reato non erano diligentemente prevedibili da parte dell’ente stesso, in misura tale da sconfinare oltre il perimetro del prevedibile, nell’ambito della impossibilità oggettiva di prevedere l’evento, in base al rammentato principio per cui ad impossibilia nemo tenetur.
La teoria proposta trova un suo riferimento nella teoria della prognosi postuma teorizzata dalla dottrina penalistica[3] secondo cui il giudicante formula sì la propria valutazione dopo la realizzazione del fatto, ma deve compiere un “viaggio nel passato”, ponendosi idealmente nella posizione in cui trovava l’agente al momento della attività criminosa.
Il Ruolo delle Associazioni di Categoria
Il comma 3 del solito art. 6 del Decreto dispone che i Modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle Associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della Giustizia, che di concerto con i Ministeri competenti, può formulare entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.
I Modelli, dunque, possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle Associazioni di categoria. Il rapporto che intercorre fra codici di comportamento e Modelli Organizzativi e quello di genere e specie. Sono, infatti, i codici, vagliati dall’autorità Ministeriale, a stabilire le linee direttrici il cui completamento è affidato alle singole imprese che sulla falsariga dei codici, sono chiamate ad elaborare modelli organizzativi conformi alla organizzazione della stessa impresa.[4]
Su tali premesse, pur condividendo l’assunto secondo cui la conformità dello specifico Modello alle indicazioni generali del codice di comportamento emanato dalle associazioni non può che determinare una presunzione semplice di idoneità del singolo modello, suscettibile di essere superata da una diversa considerazione delle specifiche esigenze del caso concreto[5], riteniamo che le Associazioni di categoria possano essere chiamate svolgere un ruolo più incisivo nella costruzione dei Modelli, rispetto a quello -pur importante e lodevole- che sino ad oggi hanno svolto, giungendo ad individuare -in concreto- tutte le possibili modalità attuative delle fattispecie criminose mutuate dalla casistica giurisprudenziale, la cui individuazione sarebbe troppo onerosa per la singola impresa, ma che, più agevolmente, potrebbe essere svolta nell’ambito di un programma di ricerca istituzionale, magari certificato, da parte dell’Associazione di categoria.
La mappatura delle possibili modalità attuative dei reati progettata dall’Associazione di categoria sulla base delle evidenze risultanti dalla casistica giurisprudenziale dell’ultimo ventennio, ove ritenuta idonea da parte dell’Autorità Ministeriale, potrebbe costituire il limite del perimetro delle attività di analisi delle aree di rischio per le singole imprese, su cui ciascuna, sulla base delle specifiche caratteristiche, dovrà progettare i relativi protocolli di mitigazione, e sulla cui effettività ed efficacia potrà concentrarsi il giudizio del magistrato per la concessione dell’esimente.
Ove la condotta del reato, invece, dovesse avere caratteristiche nuove rispetto a quelle tipizzabili secondo la casistica dell’ultimo ventennio, si sconfinerebbe nell’ambito della impossibilità oggettiva per l’ente di prevederne la commissione, secondo il principio ad impossibilia nemo tenetur, con conseguente riconoscimento della esimente.
La verità è che non c’è limite alla creatività di chi delinque di inventare nuovi modi per aggirare ostacoli e che, pertanto, la necessità di valutazione ex ante di idoneità del modello, sia pure limitatamente al requisito di cui alla lettera a) del comma 2 dell’art 6) si pone come un elemento irrinunciabile di un ordinamento che voglia definirsi garantista[6].
Compito dell’interprete, allora, è definire un perimetro per l’imprenditore onesto e socialmente responsabile che voglia partecipare attivamente alla mission collettiva della prevenzione del rischio reato, affinché sia incentivato ad adottare un Modello di prevenzione 231, con la convinzione che questo rappresenti un opportunità di miglioramento per i propri processi di business e non già un inutile fardello organizzativo, amministrativo e finanziario, destinato a risultare vano poiché privo delle più elementari garanzie di efficacia.
(Altalex, 19 gennaio 2010. Nota di Alfieri Zullino)
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[1] E’ un brocardo latino che significa “nessuno è tenuto a fare cose impossibili“. Presumibilmente è un precetto sorto già alle origini della civiltà giuridica di Roma antica, quale parte del primo insieme di leggi minime nate per regolare la convivenza civile. Tale massima fu ripresa nel Digesto (le Pandette) di Giustiniano. Tale espressione è tuttora usata quale massima giuridica a illustrazione sintetica del principio in base al quale, se il contenuto di un’obbligazione diventa oggettivamente impossibile da adempiere per la parte che la aveva assunta, l’obbligazione è nulla per cosiddetta impossibilità oggettiva. Tale prescrizione è ora normata nel diritto italiano dall’art. 1256 comma 1 del codice civile e seguenti, secondo il quale “l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”. Esso è tuttavia un principio di base del diritto e lo si ritrova pertanto in molti ordinamenti. Nel diritto svizzero, ad esempio, l’art. 119 cpv. 1 del Codice delle Obbligazioni prevede che l’obbligazione si ritiene estinta quando ne sia divenuto impossibile l’adempimento per circostanze non imputabili al debitore mentre è nulla ab initio se tale impossibilità sussisteva già al momento in cui l’obbligazione è stata assunta (art. 20 CO). Nel linguaggio comune la locuzione è usata per giustificare la mancata ottemperanza a un impegno assunto, dovuta a cause di forza maggiore.
[2] E’ un brocardo latino che significa.: Ciò che accade più spesso; o anche: il caso più probabile. Sulla base di tale assunto il legislatore introduce la presunzione relativa, che inverte l’onere della prova ma lascia lo spazio alla prova contraria. È detta anche presunzione semplice (o praesumptiones hominis) e che la legge lascia al libero apprezzamento del giudice.
[3] Marinucci – Dolcini, Diritto penale- parte generale, Milano p. 251.
[4] Francesco Vignoli, Il giudizio di idoneità del Modello organizzativo ex D.lgs. 231/2001: criteri di accertamento e garanzie . In Responsabilità amministrativa degli enti 1/2009 p. 8.
[5] Rordorf, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire i reati, in Le Società, 2001, p. 1302.
[6] Ancora Rordorf, op. ult. Cit. p. 1301.