Per la Rubrica “Notte… a Sentenza”: Part Time Fittizio e Sfruttamento lavorativo

Nota a: Cassazione penale , 10 marzo 2022, n.24388, sez. IV

La sentenza ha il pregio di mettere in risalto la complessità del fenomeno dello sfruttamento lavorativo e la sua capacità di realizzarsi in qualsiasi settore economico, anche nell’ambito di situazioni apparentemente regolari.

(*)Sommario: 1. Il caso. — 2. La riforma dell’art. 603 bis c.p. ed il momento del perfezionamento del reato di sfruttamento. — 3. Lo sfruttamento lavorativo al di là delle campagne. — 4. L’«approfittamento dello stato di bisogno» come elemento legittimante dell’intervento penale. — 5. Andare oltre il panpenalismo.

1. Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione, oltre a svolgere importanti precisazioni con riferimento alla natura della fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, fornisce anche un contributo utile alla messa a fuoco delle possibili forme di realizzazione del reato di cui all’art. 603-bis c.p.

Nel caso in questione, le dipendenti, le quali già al momento dell’assunzione erano state avvisate che avrebbero dovuto lavorare per un numero di ore superiore a quello previsto dal contratto collettivo di riferimento, hanno unilateralmente subito una modifica del contratto di lavoro, trasformato da full-time a part-time. La nuova veste contrattuale era però solo fittizia e finalizzata a comprimere le retribuzioni, mentre le ore lavorate restavano invariate. Inoltre, gli accertamenti svolti hanno messo in luce che alle lavoratrici non era concesso di fruire delle ferie, dei giorni di assenza e permesso previsti dalla contrattazione collettiva, lavorando sostanzialmente tutti i giorni, per un numero di ore pari a 48 ore settimanali in alta stagione.

2. Un primo aspetto significativo della sentenza in commento è dato dall’applicazione dell’art. 603-bis c.p., nella sua attuale formulazione, anche a rapporti di lavoro instaurati prima della riforma del 2016.

Fino alla riforma, la disposizione in questione non consentiva di riconoscere la responsabilità del datore di lavoro, se non nei termini di un concorso di persona nel reato di intermediazione illecita (1). Soltanto con la l. 29 ottobre 2016, n. 199, è stata introdotta, accanto alla responsabilità dell’intermediatore, anche quella del datore di lavoro, a prescindere dalle modalità di ingaggio.

L’art. 603-bis c.p. prevede, così, oggi la rilevanza di due diverse condotte (2): l’intermediazione illecita di manodopera (lett. a) e l’utilizzazione, l’assunzione o l’impiego di manodopera a condizioni di sfruttamento (lett. b). In entrambi i casi, viene previsto che la condotta, affinché abbia rilevanza penale, sia realizzata tramite approfittamento dello stato di bisogno dei prestatori di lavoro.

Secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte, nella pronuncia in commento, la fattispecie dettata dall’art. 603-bis c.p. nella sua attuale formulazione prevede un reato proprio del datore di lavoro, il cui perfezionamento può avvenire tramite modalità alternative all’assunzione, ovvero anche nelle forme di utilizzazione o impiego di manodopera.

Nel caso di specie, i rapporti di lavoro erano stati instaurati prima del 2016, senza concorso con un intermediatore. Tuttavia, secondo i giudici di legittimità sarebbe stata, comunque, applicabile l’art. 603-bis c.p., come novellato nel 2016, a fronte della condotta del datore di lavoro di utilizzazione ed impiego della manodopera in condizioni di sfruttamento. Il reato ex art. 603-bis c.p. configurerebbe, infatti, un «reato istantaneo con effetti permanenti», in cui la lesione del bene giuridico deve ritenersi sussistente fin quando perduri la condizione di sfruttamento ed approfittamento.

Secondo i giudici di legittimità, sarebbero altresì da escludere eventuali problemi di continuità normativa con altre disposizioni penali ovvero di applicazione di disposizioni più favorevoli, trattandosi di una nuova fattispecie.

In maniera condivisibile, si afferma, dunque, la possibilità di riconoscere la responsabilità penale del datore di lavoro a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge.

3. La pronuncia in commento merita attenzione in quanto riesce a cogliere dimensioni dello sfruttamento lavorativo che si realizzano al di fuori del contesto paradigmatico dei campi agricoli. Il fenomeno dello sfruttamento del lavoro è stato, infatti, tradizionalmente collegato a quello del caporalato e dell’intermediazione illecita di manodopera negli ambienti rurali, ove vittime sono generalmente i migranti, più propensi ad accettare condizioni di lavoro a cui non si sottoporrebbero i lavoratori nazionali (3).

Ben al di là dei confini dei campi agricoli, i giudici di legittimità ritengono che, nel caso in questione, le condizioni dei lavoratori siano corrispondenti agli “indici” elencati nella norma incriminatrice e, dunque, possano integrare le «condizioni di sfruttamento» rilevanti ex art. 603-bis c.p.

La sentenza, in particolare, fa leva sul mancato rispetto delle disposizioni in tema di orario di lavoro, permessi e ferie contenute nella contrattazione collettiva ovvero al cambio “fittizio” del tipo contrattuale da full-time a part-time. Tale secondo elemento, tuttavia, sembrerebbe assumere un valore del tutto marginale ai fini dell’effettiva integrazione del reato, dal momento che la modifica unilaterale si era verificata solo nel 2018, mentre la condotta di sfruttamento viene contestata al datore di lavoro già a partire dal 2016, ovvero dall’entrata in vigore della riforma.

A fronte dell’immagine classica dello sfruttamento lavorativo, la sentenza conferma così la trasversalità del fenomeno e la capacità della disposizione di dare copertura ad uno spettro di ipotesi che va oltre i confini dei campi agricoli e del caporalato (4).

4. La motivazione della pronuncia appare, invece, meno accurata con riguardo all’altro elemento costitutivo del reato, dato dall’approfittamento dello stato di bisogno. Le forme di sfruttamento rilevanti ex art. 603-bis c.p. sono, infatti, quelle che emergono dall’intrecciarsi delle condizioni di lavoro con le condizioni di vita (5). Infatti, dalla formulazione della fattispecie ex art. 603-bis c.p. discende che la mera condotta di sfruttamento non possa avere rilevanza penale laddove manchi l’elemento dello stato di bisogno (6), come, peraltro, di recente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale: «è possibile che lo sfruttamento non si accompagni all’approfittamento dello stato di bisogno, quando questo non sia conosciuto, o sinanco oggettivamente manchi» (7).

La sentenza in questione dedica, però, una scarsa attenzione a questo elemento, limitandosi ad osservare che la necessità di mantenere un’occupazione e la mancanza di alternative di lavoro, nel contesto in cui era maturata la vicenda, fossero tali da integrare lo stato di bisogno richiesto ex art. 603-bis c.p. Tale elemento viene descritto, in continuità con la precedente giurisprudenza, come una «situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose» (8), senza tuttavia individuare gli elementi fattuali che determinassero l’«impellente assillo» tale da incidere sull’autodeterminazione dei lavoratori.

Tuttavia, proprio per il ruolo legittimante dell’intervento penalistico che lo stato di bisogno sembra rivestire, esso avrebbe forse meritato una maggiore attenzione anche nell’ambito del vaglio dei giudici di legittimità.

Orbene, come chiarito dalla giurisprudenza (9), l’elemento dello «stato di bisogno», da una parte, non può coincidere con la posizione di vulnerabilità o con lo stato di necessità richiesti da altre fattispecie penali, anche per via della diversa formulazione linguistica.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui si rifà la pronuncia in questione, lo stato di bisogno deve constare in una situazione di difficoltà, anche temporanea, idonea ad inficiare la capacità di autodeterminazione della vittima. Non viene richiesto, dunque, il raggiungimento di quel livello di condizionamento dato dall’assenza di reali ed accettabili alternative, in cui si concretizza la posizione di vulnerabilità, rilevante in seno ad altre fattispecie penali, come quella di «riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù» ex art. 600 c.p.

D’altra parte, però, ridurre lo stato di bisogno, come nel caso di specie, alla mera necessità di mantenere un’occupazione non può che essere problematico. Ed infatti la difficoltà di reperire un’occupazione alternativa e la sottoposizione ad un alto grado di prevaricazione da parte dei datori di lavoro è potenzialmente riscontrabile in tutti i rapporti di lavoro che vengano instaurati nei settori in cui è basso il grado di specializzazione dei lavoratori (10).

Lo stato di bisogno, in questo modo, identificandosi con la mera necessità di lavorare, finirebbe per coincidere con la tipica situazione di squilibrio contrattuale che contraddistingue il rapporto tra il datore di lavoro ed il lavoratore subordinato di modo che esso non assumerebbe più alcun valore legittimante dell’intervento penale a fronte del rapporto lavorativo (11), tanto più dal momento che non viene fatto alcun vaglio in merito al suo effettivo “approfittamento” (12).

Tale definizione di stato di bisogno, coincidente con quella posizione di debolezza contrattuale tipica del lavoratore subordinato innanzi al datore di lavoro, a cui tradizionalmente risponde il diritto del lavoro, non è apparentemente problematica se letta in maniera isolata. D’altronde, obiettivo della riforma del 2016 sembrava proprio quello di consentire l’intervento penale anche a fronte di ipotesi di “lavoro grigio” e non soltanto innanzi a forme gravissime di sfruttamento che, sia prima che dopo la novella legislativa, trovano autonoma rilevanza penale nell’ambito della fattispecie di «riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù» ex art. 600 c.p.(13).

Tuttavia, la sovrapposizione dello stato di bisogno con la necessità di lavorare diventa parecchio problematica se si inserisce nel contesto della fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. Ques’ultima non definisce lo sfruttamento ma ne propone una identificazione tramite indici, peraltro, alternativi (14) e non tassativi (15). In questo modo, si ampliano potenzialmente all’infinito i margini della tutela penale a fronte dei rapporti di lavoro, divenendo legittimo l’intervento repressivo ogni qualvolta il giudice ritenga che la condotta del datore di lavoro integri le condizioni di sfruttamento, a loro volta lasciate al solo apprezzamento giudiziale (16).

La pronuncia, pur in parte condivisibile, mostra così in maniera evidente alcune criticità della fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. e dell’uso contestuale di concetti vaghi come “condizioni di sfruttamento” e “stato di bisogno”.

5. La sentenza ha, di fatto, il pregio di mettere in risalto la complessità del fenomeno dello sfruttamento lavorativo e la sua capacità di realizzarsi in qualsiasi settore economico, anche nell’ambito di situazioni apparentemente regolari (17), come nel caso in questione.

D’altro canto, però, la pronuncia, identificando lo stato di bisogno con la necessità di mantenere l’occupazione, offre spunti di riflessione in merito all’approccio prevalentemente repressivo proposto dal legislatore innanzi allo sfruttamento lavorativo.

La formulazione dell’art. 603-bis c.p., che attribuisce rilevanza penale alle sole condotte ove vi sia contestuale approfittamento dello stato di bisogno, rischierebbe di lasciare sguarnite di tutela ipotesi in cui vengano perpetrate gravissime forme di sfruttamento, in assenza del riconoscimento di uno stato di bisogno del lavoratore (18).

Ricorrendo ad una nozione di stato di bisogno sostanzialmente coincidente con la posizione del lavoratore subordinato, i giudici di legittimità hanno aggirato, di fatto, il problema definitorio, al pari di quelle pronunce in cui lo stato di bisogno viene riconosciuto nella stessa accettazione di condizioni lavorative che altrimenti non sarebbero state accettate (19), così riconoscendo lo status di persone offese ai lavoratori coinvolti.

Ad ogni modo, se sul versante penalistico queste obiezioni mantengono un rilievo cruciale, va allo stesso tempo riconosciuto che, in assenza di altre e più efficaci forme di tutela, tale approccio dei giudici di legittimità può risultare, comunque, congeniale a dar risposta alle esigenze di giustizia del caso concreto. Tanto più che si tratta di un episodio che ha a che fare con un settore, quello della ristorazione, che sembra sfuggire all’applicazione delle tutele sindacali e legali per sconfinare in diffuse forme di sfruttamento.

Tuttavia, l’ulteriore ampliamento dell’intervento penale che potrebbe far seguito a tale impostazione interpretativa rischia di rilegare il diritto del lavoro e le tutele sindacali ad un ruolo marginale, promuovendo un uso sempre più ampio dello strumento repressivo, nonostante l’approccio penalistico finisca per non apprestare vere soluzioni sul piano delle tutele del lavoro, riconoscendo i diritti dei lavoratori solo laddove essi siano persone offese del reato (20).

Ciò mostra come sia necessario ripensare il contrasto al fenomeno in questione non solo focalizzandosi sull’ottica repressiva quanto perseguendo un approccio preventivo, tipico del diritto del lavoro, apprestando meccanismi effettivi di tutela dei lavoratori, anche quando non siano “vittime” in senso penalistico.

L’applicazione dell’art. 603-bis c.p. al di là dei suoi confini tradizionali svela, invero, il carattere strutturale che lo sfruttamento ha assunto nell’economia odierna (21) e la necessità di una risposta al fenomeno che non sia meramente penale (22).

L’intervento penale dovrebbe, piuttosto, limitarsi a rispondere alle ipotesi che, pur non gravissime, non possano neppure essere ritenute violazioni meramente formali della normativa giuslavoristica (23), non andando, però, oltre il suo ruolo di extrema ratio(24) e lasciando al diritto del lavoro il suo compito tradizionale di tutela del lavoratore nella forma di un diritto “diseguale”.

Andrebbe ripensato il sistema di contrasto allo sfruttamento lavorativo a partire da un approccio che meglio possa ricomprendere adeguate forme di tutela dinnanzi alle plurime dimensioni dello sfruttamento (25), ad esempio, rafforzando i controlli e le ispezioni nonché valorizzando la capacità del sindacato di essere presente nei luoghi di lavoro.

Per il momento, però, per quanto paradossale possa sembrare, è stata ancora la risposta penalistica quella più rapida nel leggere e individuare i fatti di sfruttamento in ambiti e settori in cui le tutele lavoristiche entrano in sofferenza a causa della particolare debolezza dei lavoratori, spesso enfatizzata dalle peculiari modalità di organizzazione d’impresa (26).

Note:

(*)  Il presente contributo è stato sottoposto a referaggio anonimo a doppio cieco.

(1)  A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, Dir. pen. con., 2015, 110; S. Tordini Cagli, Profili penali del collocamento della manodopera. Dalla intermediazione illecita all’“Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, Ind. pen., 2017, 755-756.

(2)  Sulla diversità delle condotte v. S. Tordini Cagli, La controversa relazione della sanzione penale con il diritto del lavoro, tra ineffettività, depenalizzazione e istanze populiste, LD, 2017, 627 ss.

(3)  L. Calafà – V. Protopapa, Logiche interdisciplinari e salute dei migranti, LD, 2021, 109.

(4)  V. Torre, L’obsolescenza dell’art. 603-bis c.p. e le nuove forme di sfruttamento lavorativo, LLI, 2020, 75.

(5)  A. Di Martino, Tipicità di contesto. A proposito degli indici di sfruttamento nell’art. 603 bis c.p., Arch. pen. web, 2018, 32.

(6)  M. D’Onghia – S. Laforgia, Lo sfruttamento del lavoro nell’interpretazione giurisprudenziale: una lettura giulavoristica, LD, 2021, 239.

(7)  Cass., sez. IV pen., 27 aprile 2022, n.28289, onelegale.wolterskluwer.it.

(8)  Cass., sez. IV pen., 16 marzo 2021, n. 24441, D&G, 2021, 122, nt. Ievolella.

(9)  Ex multisCass., sez. IV pen., 16 marzo 2021, n. 24441, cit.

(10)  A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato” dai braccianti ai riders, Giappichelli, 2020, 89 ss.; D. Falcinelli, Miseria e Nobiltà di un homo faber. Rie-labor-azioni di un osservatore penale, Arch. Pen., 2022, 13.

(11)  A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, Leg. Pen., 3 aprile 2017, 58.

(12)  In dottrina, non si è mancato di osservare come l’eccessiva svalutazione dell’elemento dell’«approfittamento» potrebbe finire per far ricondurre ogni singola irregolarità all’area dell’intervento penale ex art. 603-bis c.p.; così in A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento cit., 98.

(13)  C. assise Lecce 13 luglio 2017, n. 2, Cass. pen., 2018, 12, nt. De Rubeis.

(14)  Cass., sez. IV pen., 2 febbraio 2021, n. 6905, ilgiuslavorista.it, 2021, nt. Zappia.

(15)  Cass., sez. IV pen., 11 novembre 2021, n. 7857, DJ. Nel caso di specie, bisogna comunque rilevare che, nonostante non si faccia riferimento diretto ad alcuno degli indici in particolare, i giudici sembrino essersi attenuti agli stessi, essendo implicito il riferimento agli indici previsti ex art. 603-bis, co. 3, n. 1-2, c.p. È evidente, infatti, da una parte, il riferimento alla «reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie». Inoltre, dato l’ingiusto profitto derivante dalle retribuzioni non corrisposte, ricorrente sembra anche l’indice della «reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato».

(16)  Sulle criticità del ricorso agli indici v. S. Tordini Cagli, La controversa relazione cit., 632 ss.; S. Tordini Cagli, Profili penali cit.,755 ss.; V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603 bis tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, Quest. giust., 2019, 93 ss.

(17)  A. Di Martino – E. Rigo, Caporalato: effetti penali e limiti della legge, Riv. cul. pol., 2016.

(18)  Così è avvenuto in Cass., sez. IV pen., 27 aprile 2022, n.28289 cit. Invero, lo sfruttamento dovrebbe, già di per sé, ritenersi meritevole di tutela penale; così in V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, DLRI, 2018 195; V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro cit., 95.

(19)  M. D’Onghia – S. Laforgia, Lo sfruttamento del lavoro cit., 242. Sulla scarsa capacità selettiva dello stato di bisogno, v. S. Tordini Cagli, Profili penali cit., 763-764.

(20)  A. Di Martino – E. Rigo, Caporalato cit.

(21)  A. Di Martino – E. Rigo, Caporalato cit.

(22)  M. D’Onghia – S. Laforgia, Lo sfruttamento del lavoro cit., 235-236; S. Tordini Cagli, Profili penali cit., 760-761; su limiti e potenzialità del contrasto allo sfruttamento lavorativo tramite le misure di prevenzione, cfr. A. Merlo, Contrastare lo sfruttamento del lavoro attraverso gli strumenti della prevenzione patrimoniale: “Adelante con juicio”, Dir. pen. con., 2022, 174 ss.

(23)  Cass., sez. V pen., 16 marzo 2022, n. 17095, DJ.

(24)  A. Di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il lavoro del contesto nella definizione del reato, il Mulino, 2020, 50 ss.

(25)  A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento cit., 40-41. Sul punto, si condividono anche le considerazioni svolte da L. Calafà, Per un approccio multidimensionale allo sfruttamento lavorativo, LD, 2021, 201 ss. Proprio il caso di specie, ove si insiste sulle violazioni delle disposizioni dei contratti collettivi, ma anche la struttura degli indici di sfruttamento ex art. 603 bis, co. 3, c.p. che rimandano alla reiterata violazione delle disposizioni previste dai contratti collettivi, offrono già un’indicazione sull’opportunità di intervento, in termini di prevenzione, tramite attuazione di quel meccanismo dell’art. 39 Cost. che attribuirebbe finalmente efficacia erga omnes ai contratti collettivi.

(26)  Si pensi, fra gli altri, al lavoro su piattaforma; sul punto v. V. Torre, Destrutturazione del mercato del lavoro e frammentazione decisionale: i nodi problematici del diritto penale, QG, 2020.

Fonte: Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.4, 2022, pag. 704

Autori: RitaDaila Costa

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